Era un lunedì qualsiasi, di un’estate qualsiasi di uno qualsiasi dei miei diciotto anni spesi a controllare la produzione sul nastro trasportatore. Una nastro che in tutto quel tempo aveva continuato a scorrere ininterrottamente innanzi ai miei occhi senza un sussulto, una interruzione, una soluzione della sua monotona continuità e così prometteva di fare nel futuro. In compagnia di quel nastro avevo passato più di metà della mia vita e il mio cervello aveva imparato a guidare gli ingranaggi di occhi e mani fino a creare con esso un automatismo organico perfetto: ero in grado di svolgere la mia mansione per otto ore al giorno senza possibilità di errore, non importa se avevo contratto un virus influenzale, se a mio padre erano stati dati sei mesi di vita o se la mia ragazza era stata vista la sera prima nella stessa auto del mio migliore amico. Una volta entrato in

azienda e timbrato il cartellino, mi si inseriva una sorta di pilota automatico cerebrale e il livello di auto-consapevolezza si riduceva istantaneamente a zero: non provavo più sentimenti, sensazioni, tremori, paure, angosce, speranze, delusioni, ricordi. Anche i miei movimenti erano

perfettamente sincronizzati allo scorrere del nastro trasportatore e la sola immagine che il mio cervello proiettava nel suo schermo interiore era quella della

successiva cinquina di piastrelle la cui qualità dovevo verificare.
Era un lunedì qualsiasi, dicevo, di un’estate qualsiasi di uno qualsiasi dei miei diciotto anni spesi in una ceramica della mia Sassuolo. Eppure, ad un tratto, le mie sinapsi dovettero essere vittima di un tilt encefalico perché i miei occhi videro qualcosa che resero quel lunedì tutt’altro che qualsiasi: la mattonella che stava arrivando sul nastro cominciò a muoversi autonomamente, a piegarsi su se stessa e a modularsi in modo composito finché non si trasformò in una

imbarcazione che dispiegava le sue vele colorate sulle onde alte e sinuose dell’impazzito nastro trasportatore.

Di fronte a quella scena impossibile caddi a terra svenuto. E dovetti restare a lungo privo di conoscenza se in quel lasso di tempo mi ritrovai a vivere – o forse dovrei dire a sognare, ma non ne sono sicuro – tante e disparate situazioni. D’acchito la mia anima uscì dal corpo e si proiettò sul soffitto del capannone. Da quella posizione vidi che alcuni colleghi magrebini si erano precipitati sul mio corpo supino per prestarmi soccorso. Uno di loro fu mandato a chiamare il capo-reparto, mentre un altro estrasse di tasca il suo cellulare e chiamò il 118. Io, intanto, cominciai a sentirmi molto felice lassù e scoprii che non avevo nessuna voglia di tornare nel mio corpo. Quindi volsi lo sguardo verso l’alto e fui istantaneamente risucchiato in un tunnel dove faceva un buio pesto ma dal quale uscii in un istante per essere immerso in un bagno di luce talmente bianca da risultare accecante anche tenendo gli occhi chiusi. A quel punto fui sospinto contro il soffitto di una cupola ove scoprii di non essere affatto solo: una moltitudine di teschi che parlavano le lingue più disparate ed erano come in procinto di sfondare il tetto per salire verso una felicità che prometteva di essere addirittura superiore a quella, già incredibile, che si provava lì sotto. Ma in quell’istante mi sovvenne, Dio solo sa perché, l’immagine dei miei colleghi nordafricani che si affannavano per salvarmi la vita. E sono certo che fu per quella immagine se subito dopo fui risucchiato all’indietro, prima nel tunnel, poi sul soffitto del capannone e infine nel mio corpo. Da dove mi risvegliai, strabuzzando gli occhi e rimanendo qualche minuto ad osservare quegli sguardi scuri e dimessi, quei capelli crespi e sudaticci, quelle bocche irregolari e bavose.

“Sto bene, tutto a posto. Grazie.” – dissi alzandomi. Regalai qualche pacca sulle spalle dei miei soccorritori e lanciai uno sguardo al nastro trasportatore che mi parve tornato alla normalità. Già, mi parve. Dopo qualche istante, infatti, mi accorsi che su di esso stava scorrendo, fra una doppia cinquina di piastrelle, un calice fatto, sì, di ingranaggi, ma dotato di un’aura sacra e venerabile.

“Ehi, marocchini sfaticati, si può sapere perché avete abbandonato il vostro posto di lavoro?” – il capo-reparto, un uomo che si tingeva i capelli e si faceva il riporto, era sopravvenuto e non sembrava affatto ben disposto.

“E’ stata colpa mia” – mi affrettai a rispondere.

“In che senso?”

“Sono… svenuto e loro mi hanno soccorso. Comunque è tutto finito, tutto a posto. Ora sto bene” – dissi lanciando nuovamente lo sguardo al nastro che continuava a trasportare quella coppa di ingranaggi – “e possiamo ritornare tutti alla nostra postazione.”

“Mi dispiace” – soggiunse il capo-reparto rivolgendosi agli stranieri – “ma vi siete giocato il rinnovo del contratto. Alla scadenza, tutti a casa.”

“No, non puoi fargli questo. Ti ripeto che è stata tutta colpa mia.”

“Piantala, sennò farai la stessa fine, anche se sei qui da diciotto anni.”

Quella risposta mi fece
montare una tale rabbia che gli
saltai alla gola, deciso a
strangolarlo. I colleghi
magrebini piombarono su di me
riuscendo, ma solo con grande
fatica, a staccare le mie mani
dal suo collo tutto arrossato. Il
capo-reparto si alzò
semi-stordito e si diresse
rapidamente al gabbiotto da
dove era solito controllarci. Vidi
che alzò la cornetta del telefono e cominciò a parlottare con fare concitato. Mi voltai verso il nastro trasportatore: la coppa era ancora là, rassicurante come non mai. Dopo centottanta secondi mi ritrovai ammanettato: due carabinieri di buona stazza erano venuti a prelevarmi, fra lo sguardo stralunato dei miei colleghi magrebini, che accennarono un timido, ma affettuoso e preoccupato saluto nei miei confronti.

L’Alfa 166 che mi portava verso il carcere modenese di S.Anna dovette fermarsi qualche istante perché sul cavalcavia di Maranello una ressa di fanatici di automobilismo, desiderosi di vedere Schumacher che provava la sua Ferrari sul circuito di Fiorano, rendeva

impossibile il passaggio. Osservandone la scia, come se si trattasse di una foto ‘mossa’, riuscii per qualche istante a dimenticare il dolore, più morale che fisico per la verità, di avere le manette ai polsi.

Poco più in là facemmo un’altra sosta ad un passaggio a livello durante la quale ebbi modo di osservare l’aia di una fattoria: incredibile a dirsi, accanto alle galline e alle anatre, si aggirava libero come l’aria un maiale.

Uno solo. Non mi era mai capitato di vedere un suino scorrazzare liberamente in un cortile: dacché ero venuto al mondo i maiali li avevo sempre visti stipati nei camion o nei porcili dei caseifici. Ma quel suino si trovava in perfetta solitudine con un ampio spazio in cui muoversi a suo piacimento e sembrava consapevole della fortuna di cui godeva.

Prima di arrivare a destinazione attraversammo anche la zona industriale Modena Nord costellata da una lunga serie di ciminiere il cui fumo seguiva la direzione del vento verso il cerchio di un sole ormai calante ma

ancora caldo.
Quando entrai in carcere notai subito che l’atmosfera era molto tesa: da un lato c’erano africani molto seri con volti sfregiati e occhi tumefatti; dall’altra slavi diafani ricoperti di tatuaggi e piercing all’arcata sopraccigliare. Fra i due gruppi non correva buon sangue e le risse dovevano essere all’ordine del giorno. Ma io non provai nessuna paura, anzi: ripensai a quanto mi era accaduto in quell’incredibile lunedì, al veliero apparso sul nastro, ai teschi nella luce

bianchissima, al soccorso dei colleghi magrebini, alla gioia provata, alla venerabile coppa di

ingranaggi.
Seguendo un bizzarro impulso che sgorgava incontrollato dal

cuore, trovai una posizione centrale e cominciai a raccontare a tutti la mia storia. All’inizio, mentre parlavo dei miei robotici diciotto anni di lavoro, mi sembrò di annoiarli e fors’anche di scocciarli. Ma quando presi a narrare della mia visione sul nastro trasportatore e di tutto ciò che ne era seguito, sia gli slavi che gli africani si avvicinarono e si interessarono al punto da pormi diverse domande. Alcuni di loro non capivano bene l’italiano, quindi dovetti spiegare gli stessi passaggi più volte. Uno degli slavi si disse sorpreso perché aveva vissuto un’esperienza simile a quella del tunnel e della luce quando, dopo una rissa nel suo paese, aveva rischiato di morire. Un africano, invece, prese con forza il mio avanbraccio e mi condusse alla sua cella per mostrarmi qualcosa: non sapeva proferire che poche parole di italiano, ma mi aveva ascoltato con interesse e doveva aver intuito qualcosa se gli venne l’idea di condurmi innanzi ad una immagine tanto insolita in sé quanto familiare per me e che raffigurava ciò che potrei definire

come un Totem Tecnologico. Perché dico che doveva avere intuito qualcosa? Per la semplice ragione che innanzi a quel Totem mi sentii come quando avevo notato quella specie di Santo Graal fatto di ingranaggi sul nastro trasportatore: cioè profondamente sereno, tranquillo, forse perché avevo percepito di essere inconsciamente capace di viaggiare in un’altra dimensione dell’esistere. E fu proprio mentre contemplavo quel Totem costituito da mille figure circolari, che il portone ultra-blindato dal quale ero entrato si aprì:

“Ehi, tu, l’ultimo arrivato. Sei libero.”
“No, grazie.”
“Scusa?”

“Mi perdoni, ma voglio rimanere

ancora un po’ con queste persone.”
“Non se ne parla neppure: il carcere non ha i soldi per mantenerti.

Fuori!”
E così, meno di due ore dopo il mio ingresso fra quelle amene

quattro mura, fui sbattuto sulla strada come un mendicante che fosse venuto a chiedere l’elemosina o un testimone di Geova che avesse tentato di convertire qualcuno. Presi allora a camminare verso la stazione delle corriere ove giunsi in tempo per salire sull’ultima corsa serale per Sassuolo. Una volta a casa, notai che la chiave non riusciva ad aprire la serratura. Provai e riprovai ripetutamente finché, dalla rampa di scale sottostante, mi raggiunse la voce del proprietario:

“La smetta di forzare la serratura: l’ho cambiata.”
“E per quale ragione?”

“Ho saputo quello che ha fatto: mi dispiace, ma io non voglio affittuari marocchini, né che siano amici loro. Le aprirò solo una volta per permetterle di portarsi via le sue cose. Se ha già dove andare le apro

ora, altrimenti torni

quando avrà trovato una sistemazione.”
Francamente non so dire per quale ragione, ma riuscii a controllare

l’istinto di saltargli al collo. Anzi, per un attimo pensai che quel gesto mi avrebbe permesso di tornare dai miei amici detenuti e l’idea non mi dispiacque affatto. Ma un po’ per indolenza, un po’ perché avevo voglia di rivedere i miei colleghi magrebini, un po’ perché non volevo subire l’umiliazione di essere nuovamente sbattuto sulla strada mentre stavo facendo amicizia, lasciai perdere e me ne andai a zonzo per il quartiere ‘Braida’. Sul piazzale di ‘Mezzavia’, il palazzone abitato dagli extracomunitari e dalle loro mille antenne paraboliche, un tunisino ubriaco si stava accapigliando con un albanese perché gli aveva rubato un sacchetto di pasticche. Poco più in là, sul bordo della tangenziale, una delle ‘gazzelle’ che ben conoscevo, con le luci delle sirene lampeggianti come alberi natalizi, aveva bloccato il passaggio di una Ford Fiesta scassata e dalla quale erano appena usciti cinque immigrati per affrontare le domande dei due carabinieri di ronda. Dall’altra parte, non lontano dalla Coop, quattro donne di colore a seno nudo e due ragazzine biondissime che non potevano avere più di sedici anni, stavano contrattando il prezzo con un paio di uomini appena arrivati con una Mercedes targata Bologna.

“Cosa fare tu qui?”

Quando mi volsi fui molto sorpreso di vedere Alì, quello dei miei colleghi che per primo si era precipitato sul mio corpo esanime la mattina di quello stesso giorno – ‘possibile che fosse passato così poco tempo?’

“Allora tu no galera?”
“Ci sono stato, ma solo per un paio d’ore.”
“E perché qui?”
“Veramente io abitavo qui vicino, in Viale Matteotti.”
“Perché tu dire abitavo?”
“Mi hanno sbattuto fuori anche da casa.”
“Tu senza casa, ora? Senza letto per dormire?”
“Già, ma non ti preoccupare, troverò una sistemazione prima o

poi.”
“Questa notte tu venire a casa mia. Vuoi?”
“Stai dicendo che io posso venire a dormire da te?”
“Sì. Miei amici partiti per Turchia ieri. Mia casa mezza vuota. Io

contento se tu vieni. Domani andiamo lavorare insieme.”
Quando entrai in casa di Alì ebbi un’altra sorpresa. – ‘ma quante ne

avevo avute quel lunedì?’
Si trattava di un monolocale di non più di 40 metri quadrati, ma era

tenuto in modo pulito e ordinato. C’erano una libreria, non grande, ma zeppa di volumi, una televisione LCD, un narghilè, un tavolo di formica, un cavalletto per dipingere, un letto a una piazza e un paio di divani sui quali avevano probabilmente dormito i suoi amici. Appesi al muro c’erano tre quadri molto grandi: i primi due raffiguravano il medesimo volto spaventato solo che l’uno aveva i tratti bianchi e lo sfondo nero, l’altro i tratti neri e lo sfondo bianco. Il terzo era invece molto più difficile da decifrare: mi parve di vedere due grandi occhi ai lati di un albero in inverno, privo di foglie ma con radici profonde.

“Anche tu artista?” – mi chiese Alì notando che ero rimasto affascinato da quelle opere.

“Un pochino. Suono bongos, congas e ogni altro genere di percussioni. Di recente ho cominciato a dipingere col computer.”

“Con computer…?”
“Sì. E’ molto creativo. Ma senti un po’, questi quadri sono tuoi o dei tuoi amici?”
“Miei. Io piace molto dipingere.”

“Questi due sono molto chiari. Se fossi in te li chiamerei: ‘La Paura del Bianco’ e ‘La Paura del Nero’. Riflettono molto bene l’epoca in cui stiamo vivendo. Ma questo qui, francamente… che cos’è?”

“Questo è, come si dice? Osso testa?” – provò a indovinare Alì toccandosi il capo poco sopra la fronte.

“Vuoi dire un… teschio?” – domandai mentre un brivido mi correva lungo la schiena perché rammentai in quell’istante l’esperienza ultraterrena ma gioiosa sotto la cupola.

“Non so, si dice così, osso testa?”
“Sì, la parola è
teschio.”
“Tu scrivere per favore questa parola qui?”
Dopo avergli scritto
‘teschio’ su un taccuino che aveva estratto

dalla tasca e che era pieno di vocaboli italiani e della corrispettiva traduzione in arabo, ritornai al quadro:

“Un teschio, eh? In effetti, ora che me lo dici lo vedo. A me sembrava un albero, oppure le corna di un cervo. Però avevo intuito che questi due cerchi grandi rappresentassero occhi. Perché lo hai messo in mezzo agli altri due?” – gli domandai mentre già cominciavo a intuire la risposta.

“Perché tutti, bianchi e neri, cristiani e musulmani, ricchi e poveri, io e te, abbiamo tutti… teschio. Anzi siamo tutti teschio.”