“Edipo a Colono” è la terza e ultima tragedia sofoclea della c.d. saga dei Labdacidi. Scritta poco prima della morte quando Sofocle aveva già quasi 90 anni, venne rappresentata postuma nel 401 a.C.

Nell’Edipo Re, come sappiamo, il protagonista scopre la scabrosa verità e si acceca chiedendo l’esilio. Esilio che ottiene a gran fatica e solo quando ormai preferiva finire i suoi giorni nella sua Tebe.

In quest’ultimo capolavoro, Edipo arriva mendico e cieco a Colono insieme alla figlia Antigone (dal che si deduce che, da un punto di vista cronologico delle 3 tragedie, l’Antigone si colloca ovviamente a metà). Colono è un demo, cioè un sobborgo di Atene dove inizialmente viene accolto con orrore e disprezzo dai cittadini, mentre il re, Teseo, decide di accordargli ospitalità e protezione. In cambio di questo trattamento di favore e per certi versi immeritato, Edipo giura a Teseo che il luogo ove egli (Edipo) morirà preserverà per sempre i confini dell’Attica, garantendone la sicurezza.

Arriva sulla scena l’altra figlia, Ismene, la quale porta la notizia dello scontro fra i fratelli Eteocle e Polinice (di cui conosciamo la fine tragica grazie all’Antigone). Poi si presenta anche Creonte, re di Tebe e fratello di Giocasta, con l’intento di convincere Edipo a tornare in patria ma, visto il rifiuto di quest’ultimo, il re cambia strategia decidendo di prendere in ostaggio Antigone e Ismene, le quali vengono però messe in salvo e riportate al padre da Teseo.

Ecco poi apparire sulla scena Polinice nel tentativo di ingraziarsi le simpatie del padre autoaccusandosi di averlo ingiustamente maltrattato e mostrandosi pentito. Ma Edipo si rifiuta di perdonarlo affermando che egli, suo figlio, si è macchiato della colpa di aver scacciato il padre da Tebe quando ormai voleva restare. Edipo può apparire implacabile, ma va precisato che secondo una profezia avrebbe vinto la guerra il fratello che sarebbe riuscito ad ingraziarsi il favore del padre: ecco forse spiegato il motivo del secco rifiuto di Edipo.

Edipo sente che la sua fine si avvicina e viene accompagnato da Teseo in un boschetto sacro vicino al luogo di culto delle dee Eumenidi e da lì sparisce, praticamente prelevato dagli dèi e assunto in cielo.  

Si conclude così questa trilogia ricchissima di significati, poliedrica, magnifica e capace di indurre riflessioni di una profondità forse senza pari. Fra queste proviamo a selezionarne un paio.

Anzitutto la vicenda di Edipo pone in rilievo la prepotenza del fato: si può nascere già condannati a una vita estremamente dolorosa. Inoltre, l’Uomo può tentare in tutti i modi possibili di evitare le sventure a cui è destinato (e di cui viene a conoscenza grazie agli oracoli) e se inizialmente può sembrare di riuscire nel suo intento, alla fine ogni sforzo e ogni macchinazione si riveleranno vani. Di fronte alla necessità (ananke), l’Uomo non può nulla e deve rassegnarsi. Ma è veramente così? Fino a un certo punto. Perché? Perché per Sofocle esiste una possibilità di riscatto.

Il fato è veramente crudele con Edipo: gli fa commettere i delitti più atroci in modo inconsapevole e incolpevole. Lo spettatore non può non provare per lui quella “pietà” di cui parla Aristotele nella sua Poetica. La scoperta lo porta alla decisione di accecarsi (gesto simbolico che significa la volontà di iniziare a vedere per davvero, come l’indovino Tiresia) e di chiedere l’esilio. Questa assunzione di responsabilità delle proprie azioni, nonostante l’ovvia impossibilità di fare altrimenti, incrementa il sentimento di pietà nello spettatore che per questa via intuisce ciò a cui mira il tragediografo: se accetti il fato, con tutti gli orrori che comporta, fino al punto da assumerti la totale responsabilità dei tuoi comportamenti (non solo a parole o interiormente, ma compiendo anche un gesto autolesionistico), allora si apre la possibilità della riabilitazione. Ecco spiegato, dal mio modesto punto di vista, perché Edipo alla fine viene riabilitato, trascinato in cielo e accolto dagli dèi. Una vicenda che ricorda in qualche modo la passione di Cristo e il suo sacrificarsi per cancellare i peccati del mondo e offrire una possibilità di salvezza. Con tanto di premio al generoso Teseo e alla sua Atene, di cui Edipo finisce per diventare una sorta di protettore.

Da rilevare che Sofocle era nativo di Colono e scrivendo questa tragedia pochi mesi prima di morire abbia molto probabilmente voluto trattare il tema della morte sia per dare giustizia al povero Edipo che per agganciarsi a se stesso e alla sua ormai prossima dipartita. Quando verso la fine della tragedia il protagonista si avvia al boschetto, il coro comincia a cantilenare la convinzione degli antichi greci sulla vita umana, mistero doloroso e insensato a cui solo la morte sembra porre rimedio.

“Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia” (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237)