essere condivisaL’Edipo Re di Sofocle ci racconta il dramma del figlio di Laio che si strappa gli occhi e chiede di essere esiliato dopo aver scoperto i crimini di cui si è macchiato.
Lo spettatore non può che provare dolore, pietà e compassione per lo sventurato protagonista che fa di tutto per evitare la tremenda profezia (uccidere il padre e giacere con la madre) a cui è condannato da una legge divina, il fato, a cui in realtà non è possibile sfuggire.
Oltre alla riflessione sulla esistenza o meno di un fato ineluttabile che l’Uomo non potrà mai cambiare per quanti sforzi faccia, non si può non provare ammirazione per la Bellezza, seppur tragica, che sta nel gesto di Edipo di togliersi la vista. Mentre l’indovino Tiresia ha saputo vedere al di là delle apparenze nonostante la propria cecità, l’Edipo dotato di una vista perfetta non aveva potuto scorgere la Verità. Egli dice di accecarsi perché nulla di visibile potrebbe più risultargli gradevole, ma noi potremmo spingerci oltre perché la Bellezza delle Grandi Opere sta anche in questo: nelle infinite possibilità di lettura, non importa se presenti o meno nell’anima dell’autore.
E allora tentiamo questo esercizio ed elaboriamo questa idea: forse, col suo gesto autolesionistico, Edipo vuole sviluppare ciò che gli è mancato quando era integro, ossia l’abilità di vedere la Verità dietro le apparenze. Un’abilità che in qualche modo spetta solo ai ciechi?

Ma in questa tragedia-capolavoro c’è anche un altro tema di una Bellezza indicibile: la ricerca ostinata della Verità finisce per determinare la propria sventura? Sin dall’inizio, Edipo non fa altro che perseguire testardamente la Verità circa l’assassino di Laio. Non si dà pace e scatena un vero e proprio bando per risolvere l’enigma. Una volta scoperta la Verità, ecco però consumarsi il dramma. La prima domanda che ci si pone è quella sopra riportata: possibile che ricercare onestamente la Verità procuri la propria rovina? Non credo che Sofocle mirasse a questa conclusione. Troppo intelligente. E allora dobbiamo individuare un’altra chiave di lettura.
Anche in questo caso, cercherò di svincolarmi da ogni interpretazione di cui io abbia conoscenza per tentarne una affatto nuova (ch’io sappia almeno) e originale.
Apparentemente, certo, la ricerca del protagonista porta a una scoperta che lo addolora e lo conduce alla rovina. Ma alla rovina di cosa? Del suo corpo, del suo soma, della prigione in cui la sua anima è stata rinchiusa e che dunque ora può avviarsi alla liberazione da un ciclo di vita karmicamente orribile a un altro forse migliore.
In effetti, questa mia lettura del tutto personale, potrebbe essere condivisa qualora si assista anche alla Tragedia successiva, Edipo a Colono, in cui lo sventurato ex sovrano di Tebe vaga disperato, ma finisce per essere assurto in cielo dagli dèi. Evidentemente, l’autopunizione gli ha permesso di vedere e di liberare il suo animo di un peso karmico talmente opprimente e disgustoso da apparire, a prima vista, ingiusto. (Daniele Bondi)