Filottete è una tragedia di Sofocle che fu rappresentata nel 409 a.C.
Il protagonista è un guerriero abbandonato da 10 anni sull’isola di Lemno dai suoi compagni Achei in viaggio verso Troia. Il motivo della crudele decisione risiede nello stato di salute di Filottete il quale non riesce neppure a camminare perché era stato morso da una vipera in un piede, un morso che gli ha lasciato una ferita infetta e puzzolente, evidentemente inguaribile visti i 2 lustri ormai passati.
Quando però un oracolo svela ai greci in guerra a Troia che senza l’arco di Filottete non potranno uscirne vincitori, essi incaricano Ulisse e Neottolemo (figlio di Achille) di tornare su quell’isola per recuperare quella preziosissima arma (che l’eroe aveva ricevuto in dono da Eracle). Ulisse, che in questa tragedia appare nella sua veste peggiore di eroe calcolatore, meschino e spietato, ordina a Neottolemo di accattivarsi la fiducia di Filottete e farsi consegnare l’arco. In mancanza, date le condizioni del povero esule, gli sarebbe stato strappato con la forza. L’inganno riesce perché Neottolemo è figlio del grande Piè Veloce, stimatissimo da Filottete, e si presenta come il ragazzo ingenuo, onesto e puro che in fondo all’anima in effetti è.
Ma quando Neottolemo consegna l’arco ad Ulisse, se ne pente quasi immediatamente e allora lo recupera, torna alla grotta di Filottete e lo restituisce al legittimo proprietario confessandogli tutto quanto e supplicandolo di salire anche lui sulla nave per Troia al fine di contribuire in modo decisivo, come dicono gli dèi, alla vittoria finale. Inizialmente, Filottete rifiuta perché nutre un odio viscerale per Ulisse (al quale sono state peraltro assegnate le armi di Achille determinando così una grave ingiustizia nei confronti sia di Aiace che di Neottolemo medesimo). La svolta avviene quando la voce dall’oltretomba di Eracle comunica a Filottete che il suo sacrificio è necessario per volontà divina. Obbedendo, sarà poi ricompensato con la guarigione dalla malattia e la possibilità di tornare alla terra del padre ove morire in pace.
Come in altre tragedie di Sofocle, troviamo anche qui un uomo colpito duramente e senza motivo da un destino crudele e avverso. Il tragediografo ama raccontare in questo modo la sventura degli esseri umani e pertanto l’essenza tragica della vita: che colpa hanno, dei propri drammi, Edipo e Aiace, Antigone ed Elettra? È la visione greca del fato, della necessità (ananke) e, in definitiva, della ineludibile obbedienza che si deve al divino volere. Oltre a questo tema, si staglia sullo sfondo dell’opera la grande questione del conflitto fra giusto e utile. Se un’azione porta al raggiungimento di uno scopo, vale la pena compierla anche se palesemente ingiusta nei confronti di un essere umano? Neottolemo torna indietro e restituisce l’arco a Filottete perché non regge il peso del senso di colpa. Egli afferma infatti di non sopportare l’idea di avergli strappato l’arco con l’inganno: piuttosto, grida ad Ulisse, avrebbe preferito portarglielo via con la forza perché preferisce “la giustizia alla scaltrezza”.
Molti commentatori dichiarano che questa tragedia è l’unica ad avere un lieto fine. A mio parere tutte le tragedie di Sofocle hanno, mutatis mutandis, un lieto fine. Edipo viene assunto in cielo, Antigone muore ma da eroina che si mantiene aderente al comportamento più giusto e moralmente ineccepibile. La stessa Elettra, una volta vendicata, danza felice.
Da rilevare che la vicenda della consegna delle prestigiose armi di Achille a Ulisse è presente sia in Filottete che in Aiace. E in entrambe le tragedie questa decisione ha il colore grigio scuro del bieco complotto, del gioco di potere più squallido e meschino e a farne le spese è il supremo concetto di giustizia. D’altra parte, Filottete sottolinea che “gli Dèi proteggono i criminali e uccidono i giusti”. Ma allo stesso tempo non manca di redarguire chi si sente forte e invincibile: “Quando sei felice devi stare attento perché la tua vita può andare in rovina molto rapidamente”.
Su Youtube si trova una magnifica rappresentazione dell’opera diretta da Giuseppe Pambieri. Dura poco meno di 2 ore e vale assolutamente la pena di godersela. (Daniele Bondi)