Osservando le lontanissime increspature di quell’Unico Grande Calice che chiamiamo Oceano Atlantico, mi sono ricordato del proposito di riassumere in poche righe la ragione della maledizione eterna che ho deciso di indirizzargli. Visto dal graffiato oblò del Boeing 727 sul quale mi trovo, l’abisso d’acqua salata che sto sorvolando mi trasmette il senso angusto della incolmabile distanza che ha l’ardire di separare Paesi e popoli.

Ebbene sì: sto ritornando in Argentina, il Paese dove sono nato trentadue anni fa e dove sono cresciuto circondato dall’affetto del mio nonno italiano e dai circensi palleggi coi quali, sin da bambino, strabiliavo le genti che si radunavano attorno a me e al mio consunto pallone di cuoio.

Se a dodici anni iniziai a giocare nelle giovanili del River Plate, a quattordici ero già considerato una promessa, a sedici venni convocato nella nazionale maggiore e a ventidue vestivo la maglia del Milan, devo assegnarne il merito a mio nonno Enzo. Pur sfoggiando a scuola una discreta inclinazione per le lettere, decisi infatti di seguire il suo consiglio: il talento di cui ero dotato andava valorizzato al massimo.

Durante la prima trasvolata che ci portò a Milano io e nonno Enzo condividemmo la gioia che solo coloro che versano lacrime e sangue per raggiungere uno scopo possono provare: il nostro sogno, dopo anni di sacrifici e rinunce, era diventato realtà. Il nonno venne ad abitare nella dependance della mia Villa sul Lago di Como e non si perse una sola delle mie partite: mi seguì anche nelle trasferte più lontane, indossando in ogni stadio la sciarpa porta-fortuna della Fossa dei Leoni. E, una volta a casa, quanti utili consigli mi sapeva dare! “Sei troppo lezioso, devi essere più concreto, giocare di più per la squadra…”

Cinque anni dopo il mio arrivo in Italia avvenne però un fatto che cambiò completamente la mia visione della vita facendomi riconsiderare e alla fine identificare le vere ragioni del nostro viaggio transoceanico. Al termine di un Milan-Juventus, nel piazzale antistante lo stadio di San Siro, scoppiarono dei tafferugli fra le opposte tifoserie e qualcuno di quei delinquenti ebbe la bella idea di far esplodere una bomba fra la gente. Ci furono decine e decine di feriti e l’unica persona che ci lasciò la pelle fu proprio mio nonno Enzo. Passai un lungo periodo di crisi durante il quale non feci che maledire il viaggio che avevo tanto a lungo benedetto. Per un intero campionato non riuscii più a giocare ai miei livelli, persi il posto da titolare e la società fu sul punto di cedermi.

Quando stavo per rinunciare a tutto, un compagno di squadra cercò di scuotermi dicendomi che la mia depressione non aveva alcuna ragion d’essere in quanto io, a ben vedere, ero stato il giusto tramite per permettere la realizzazione del desiderio di nonno Enzo di tornare a morire nel Paese in cui era nato.

Se da un lato la scossa mi fece bene, permettendomi di far cessare la mia lamentosa autocommiserazione, dall’altro mi gettò nel dilemma del quale sarò prigioniero fino alla fine dei miei giorni: devo considerarmi argentino, italiano, oriundo o che cos’altro? Ma, soprattutto: il senso di appartenenza a una nazione è davvero necessario alla vita di noi esseri umani? L’altro ieri il mio compagno di squadra mi ha ripetuto che mio nonno è morto sereno in quanto, negli ultimi anni della sua vita, ha ritrovato le proprie radici e la propria identità culturale. Peccato che io, nello stesso arco di tempo e a causa della stessa trasvolata, abbia invece scoperto di non possedere le une né, tanto meno, di poter ambire alla seconda. Temo che sarò sempre straniero. Ovunque vada.

Da questa doppia trasvolata e dal tempo che ne ha misurato la durata ho allora maturato l’idea secondo cui è del tutto illusorio credere che noi esseri umani abbiamo radici culturali ben precise alle quali attingiamo la linfa che sostiene la nostra vita. Se qualcuno mi dirà che questo genere di pensiero vale solo per noi, orfani della terra, gli risponderò con una semplice domanda: per quale motivo i rapporti fra i popoli devono essere regolati dai fittizi confini tracciati sulle mappe geografiche e non invece dall’appartenenza alla stessa, contraddittoria razza umana?

Eppure l’oceano che si agita sotto di me parla chiaro: se la sua acqua riesce a bagnare sia le coste europee che quelle

sudamericane, se il suo effluvio salmastro si può odorare a Liverpool come a Rio, non vorrà forse comunicarci qualcosa di più profondo? Tutto sommato, non rappresentano quelle coste il bordo perimetrale di un Unico Grande Calice le cui acque fluiscono, rifluiscono, si mescolano, evaporano e ricadono dalla notte dei tempi? Un Calice che ho deciso di maledire perché non intende mostrarsi per quello che è a tutti coloro che sono convinti di possedere una “identità culturale” che li distingue in modo assoluto.

Ma c’è davvero differenza fra una parte del bordo e l’altra?

Bevendo da diverse parti dello stesso calice, non si assapora forse lo stesso gusto? Non è dunque il contenuto, e non la posizione topografica su quel perimetro, ciò che dovrebbe rendere universale la percezione?

La mia esperienza di oriundo mi ha insegnato una sola cosa: se c’è qualcosa accomuna tutti gli esseri umani, ebbene, questo è il contenuto. C’è più contenuto in ciò che ci accomuna che realtà in ciò che ci divide, accidenti! Il contenuto dell’Unico Grande Calice è sempre e comunque acqua salata, sia a Bordeaux che a New York; e il contenuto che accomuna gli esseri umani è la sofferenza, tanto a Lisbona quanto a Buenos Aires: in nome di questo denominatore comune a cui nessuno può sottrarsi – non importa a quale costa si affaccia la sua casa o a quale parte del bordo appoggia le proprie labbra per dissetarsi siamo tutti Cittadini del Mondo e nient’altro.

Smettiamola dunque di sventolare bandiere, abbracciare campanili, inventare rivalità, combatterci per erigere steccati. Voglio sperare che, prima o poi, cesseremo di farci abbindolare dal canto delle sirene oceaniche e dal paranoico hobby di tracciare confini sulle mappe geografiche.

Forse, più che maledire l’Oceano perché non si mostra per ciò che è, dovrei essere più esplicito e rivolgermi direttamente a chi lo vede come ciò che non è. Ma non credo cambierebbe molto: trattasi, in entrambi i casi, di interlocutori ciechi e sordi.